Lea Garofalo: la donna che osò sfidare la ‘ndragheta. Oggi considerata il simbolo della lotta alle mafie #31donnechehannocambiatoilmondo

Lea Garofalo era una donna emancipata, una donna che si era innamorata di uomo che faceva parte di una cosca mafiosa a cui lei aveva deciso di ribellarsi a questo sistema per amore della figlia, per darle un esempio da seguire, affinché non fosse soggiogata fisicamente e psicologicamente dal sistema.
Lea però era diventata scomoda perché aveva deciso di collaborare con la giustizia ed ancor di più perché era donna e, quindi, ulteriormente responsabile di aver mostrato la propria autonomia intellettuale, ribellandosi agli uomini del clan.
Lea ha pagato con la sua vita, e con la sua stessa vita ha dato un segnale molto preciso a sua figlia, alla quale ha insegnato a ribellarsi a ciò che non è giusto e a combattere per ciò in cui crede.
Figlia di Antonio Garofalo e Santina Miletta, Lea rimase orfana all’età di nove mesi in quanto suo padre venne ucciso nella cosiddetta “faida di Pagliarelle”. La piccola Lea crebbe insieme alla nonna, alla madre e ai fratelli maggiori Marisa e Floriano che, assunto il ruolo di capofamiglia, anni dopo avrebbe vendicato l’omicidio del padre, salvo poi essere a sua volta ucciso in un agguato, l’8 giugno 2005. A quattordici anni Lea si innamorò del diciassettenne Carlo Cosco e decise di stabilirsi con lui a Milano, in viale Montello 6. Il 4 dicembre 1991 diede alla luce Denise, figlia della coppia.
Lea Garofalo fece un primo gesto eclatante quando decise di trasferirsi a Milano, ignara del fatto che Carlo Cosco l’avesse scelta come compagna solo per acquisire maggior prestigio agli occhi della cosca Garofalo. Il secondo arrivò nel 1996, quando il compagno e alcuni componenti della sua famiglia vennero arrestati per traffico di stupefacenti: durante un colloquio in carcere, la ragazza comunicò al compagno la volontà di lasciarlo e di volersi portare via la figlia.
La reazione fu violenta e immediata, tanto che intervennero le guardie per sedare la lite. Madre e figlia abbandonarono dunque Milano. Nel 2002, quando Lea, sotto casa, si accorse dell’incendio della propria auto, capì che i Cosco erano sulle loro tracce e che lei e sua figlia si trovavano in pericolo. Decise di rivolgersi ai Carabinieri e di raccontare tutto ciò che, nel corso degli anni, aveva visto e sentito, a Pagliarelle come a Milano. Per le sue dichiarazioni, la giovane donna e la figlia vennero inserite, con false generalità, nel programma di protezione.
La vita da testimone di giustizia fu difficile, caratterizzata da una profonda solitudine. Le dichiarazioni di Lea non sfociarono in alcun processo (salvo poi, nell’ottobre 2013, condurre all’arresto di 17 persone in varie città italiane) e per questo motivo le viene revocata la protezione dello Stato. Nonostante il ricorso vinto al Tar, nel frattempo i documenti falsi suoi e della figlia non esistevano più.
Nel 2008, ad un incontro pubblico, Lea Garofalo si avvicinò a don Luigi Ciotti, fondatore e presidente del Gruppo Abele e di Libera. Si presentò come una testimone di giustizia etichettata come collaboratrice, completamente sfiduciata nei confronti dello Stato e delle istituzioni, e intenzionata a riappropriarsi della sua dignità, del suo nome e del suo cognome, di un futuro per lei e soprattutto per la figlia Denise. Conobbe quindi la responsabile dell’ufficio legale dell’associazione, l’avvocato Enza Rando. Ma i mesi successivi sarebbero stati comunque e ancora difficili, fino a quando Lea Garofalo decise di uscire definitivamente dal programma di protezione, nella primavera del 2009.
Nel frattempo, gli anni non avevano cancellato il rancore e la rabbia di Carlo Cosco nei confronti di Lea Garofalo. La sua sete di vendetta venne soddisfatta il 24 novembre 2009. Lea e sua figlia si trovavano a Milano da quattro giorni: partite da Petilia Policastro alla volta di Firenze, mamma e figlia il 20 novembre presero il treno che le avrebbe portate nel capoluogo lombardo. Fu lo stesso Carlo Cosco ad invitarle. Si trattava di una trappola: l’ex-compagno era a conoscenza della difficile situazione economica delle due donne e chiese a Denise di raggiungerlo a Milano dopo che la figlia gli aveva raccontato di aver visto un maglione, ma che sua madre non avrebbe potuto comprarglielo. Lea, che aveva a cuore il futuro della figlia più di ogni altra cosa, decise che non l’avrebbe fatta partire da sola, nonostante i tentativi dell’avvocato Rando di dissuaderla. Lea era convinta che insieme a sua figlia non le sarebbe accaduto mai nulla, anche perché “Milano è una grande città, non è come la Calabria”.
In quei giorni, Lea, Carlo Cosco e Denise trascorsero molto tempo insieme. L’intento dell’uomo era di fare in modo che Lea tornasse a fidarsi di lui.
Nel pomeriggio del 24 novembre, Lea e Denise decisero di concedersi una passeggiata per Milano, in zona Arco della Pace. L’immagine di quella camminata fu ripresa dalle telecamere della zona: la mamma aveva un giubbotto nero, la figlia uno uguale, ma bianco. Alle 18.15 circa, Carlo Cosco le raggiunse, prendendo la figlia e accompagnandola a casa del fratello Giuseppe Cosco, per farla cenare e poi salutare i suoi zii e i suoi cugini. Poi l’uomo fece ritorno all’Arco della Pace, dove aveva appuntamento con Lea Garofalo.
L’omicidio si consumò intorno alle 19.10, in un appartamento di piazza Prealpi 2 a Milano, di proprietà della nonna di un amico dei Cosco. Il corpo di Lea Garofalo venne poi trasportato su un terreno a San Fruttuoso e lì distrutto.
I processi per l’omicidio di Lea Garofalo sono nati grazie a sua figlia Denise. La sera stessa dell’omicidio, infatti, madre e figlia sarebbero dovute rientrare in Calabria e quando Denise vide che la madre non tornava, intuì che le potesse essere successo qualcosa di tragico. La figlia chiese al padre di accompagnarla nei luoghi da loro frequentati in quei giorni alla ricerca della madre, si recarono anche dai carabinieri, che però non poterono procedere con la denuncia di scomparsa, non essendo passate le canoniche 24 ore. Nonostante ciò, Denise raccontò il giorno successivo la sua vita da “protetta” con la madre ai Carabinieri della caserma di via della Moscova: fu il maresciallo Persurich a raccogliere la deposizione. Denise sostenne di avere la certezza morale che la madre non fosse scomparsa (e tanto meno si fosse allontanata volontariamente come gli disse fin da subito il padre e come hanno affermato gli avvocati difensori durante il processo), ma che in realtà fosse morta. Uccisa per mano di Carlo Cosco, suo padre. Il 18 ottobre 2010 scattarono le manette per Carlo Cosco e per gli altri presunti partecipanti al delitto.
Finché la vicenda di Lea Garofalo non assunse rilievo nazionale, la grande carta stampata ignorò totalmente la vicenda. A seguire invece tutte le udienze del processo furono la giornalista Marika Demaria del mensile Narcomafie, e gli studenti del sito web Stampo Antimafioso (di cui Monica Angelini, Giulia Rodari, Marzio Balzarini, Tommaso Marelli, Federico Beltrami, Morgana Chittari e Martina Mazzeo per il primo grado; Clemente La Porta, Fiammetta Di Stefano, Valerio Berra e Sara Manisera per il secondo).
Il processo si è concluso definitivamente il 18 dicembre 2014, quando la Prima sezione penale della Corte di Cassazione, presieduta da Maria Cristina Fiotto, ha confermato le condanne emesse dalla Corte d’Assise d’Appello di Milano a carico dei cinque imputati. Ergastolo, quindi, per Carlo e Vito Cosco, Rosario Curcio e Massimo Sabatino, mentre l’ex fidanzato di Denise, Carmine Venturino, ottiene 25 anni, in ragione dello sconto di pena per la sua collaborazione.
Lea Garofalo viene ricordata il 21 marzo, nella Giornata della memoria e dell’Impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie, organizzata da Libera ogni anno.
Fonti
Tiziana Giusto
info@tizianagiusto.it

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